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Il Papa e l’aborto: «Misericordia per tutti». E sul sesso: «È un dono di Dio, non è un mostro»


Di ritorno da Panama, Bergoglio parla anche del popolo venezuelano: «Mi fa paura lo spargimento di sangue, serve una soluzione giusta e pacifica». E sui sacerdoti: «Rendere facoltativo il celibato dei preti? Io non lo farò»

DAL VOLO PAPALE - Gli si chiede se le sue attese sono state soddisfatte e il Papa alza appena le spalle, «il termometro per capirlo è la stanchezza, e io sono distrutto». Eppure non si direbbe, quando Francesco raggiunge in fondo all’aereo i giornalisti che lo hanno seguito durante la Giornata mondiale della gioventù. Gli preme dire una cosa: «Panama è una nazione nobile. Come in Colombia, ho visto l’orgoglio dei panamensi, sollevano i bambini come a dire: questo è il mio orgoglio, la mia fortuna. Nell’inverno demografico che stiamo vivendo in Europa, in Italia è sottozero, qual è l’orgoglio? Il turismo, la villa, il cagnolino…Pensiamoci».  

Santità, in questi giorni ha detto di sentirsi molto vicino ai venezuelani, e domenica ha chiesto «una soluzione giusta e pacifica, nel rispetto dei diritti umani». I venezuelani vogliono sapere cosa significa questo. Il riconoscimento di Juan Guaidò, nuove elezioni libere? La gente sente che lei è un Papa latinoamericano e vuole sentire il suo appoggio.
«Io appoggio tutto il popolo venezuelano, che sta soffrendo. Se mi mettessi a dire “date retta a questi Paesi o a quegli altri”, mi metterei in un ruolo che non conosco. Sarebbe una imprudenza pastorale da parte mia e farei danno. Le parole che ho detto le ho pensate e ripensate, ho espresso la mia vicinanza e quello che sento. Io soffro per tutto questo. Mettersi d’accordo non è sufficiente…Una soluzione giusta e pacifica. Mi fa paura lo spargimento di sangue. E per questo chiedo di essere grandi a coloro che possono aiutare a risolvere il problema. Il problema della violenza mi atterrisce. Dopo tutto lo sforzo fatto in Colombia, quello che è accaduto nella scuola dei cadetti di polizia è spaventoso. Devo essere un pastore. E se hanno bisogno di aiuto, che si mettano d’accordo e lo chiedano».


Alla Via Crucis un giovane ha usato parole molto forti sulla «terribile crudeltà« dell’aborto. Questa è una posizione molto radicale. Ci si chiede se questa posizione rispetti anche la sofferenza delle donne in questa situazione e corrisponda a suo messaggio della misericordia.
«Il messaggio della misericordia è per tutti, anche per la persona umana che è in gestazione. Dopo aver fatto questo fallimento c’è misericordia pure. Ma è una misericordia difficile perché il problema non è dare il perdono, ma accompagnare una donna che ha preso coscienza di aver abortito. Sono drammi terribili. Una volta ho sentito un medico che parlava di una teoria secondo cui una cellula del feto appena concepito va al midollo della mamma e lì riceve una memoria anche fisica. Questa è una teoria, ma per dire, una donna quando pensa a quello che ha fatto... ti dico la verità: bisogna essere nel confessionale e tu devi lì dare consolazione. Per questo io ho aperto la potestà di assolvere l’aborto per misericordia, perché tante volte devono incontrarsi con il figlio. Io consiglio tante volte quando hanno questa angoscia e piangono: “Tuo figlio è in cielo, parla con lui, cantagli la ninna nanna che non hai potuto cantargli”. Lì si trova una via di riconciliazione della mamma con il figlio. Con Dio c’è già il perdono, Dio perdona sempre. Ma la misericordia, che lei elabori questo… Il dramma dell’aborto, per capirlo bene, bisogna essere in un confessionale». 


Abbiamo visto per quattro giorni tanti giovani pregare con molta intensità. Fra loro c’è forse un certo numero che intende abbracciare la vita religiosa. Ma forse qualcuno sta esitando e pensa che sia un cammino difficile perché non ci si può sposare. È possibile pensare lei permetterà a uomini sposati di diventare preti, come già nella Chiesa cattolica di rito orientale?
«Nel rito orientale della Chiesa cattolica possono farlo. Si fa l’opzione celibataria prima del diaconato. Nel rito latino mi viene in mente una frase di san Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato”. È una frase coraggiosa, in un momento più difficile di questo, si era nel ’68-’70. Personalmente penso che il celibato sia un dono alla Chiesa. In secondo luogo, dico che non sono d’accordo di permettere il celibato opzionale, no. Soltanto rimarrebbe qualche possibilità nei posti lontanissimi, penso alle isole del Pacifico… Quando c’è necessità pastorale il pastore deve pensare ai fedeli. C’è un libro di padre Lobinger, interessante – questa è una cosa in discussione fra i teologi, non c’è ancora una decisione mia – la mia decisione è: il celibato opzionale prima del diaconato no. È una cosa mia, personale, io non la farò. E questo rimane chiaro. È solo il mio pensiero personale. Sono chiuso, forse? Non sento di mettermi davanti a Dio con questa decisone. Padre Lobinger dice che la Chiesa fa l’eucaristia e l’eucaristia la fa la Chiesa. In tanti posti, dice Lobinger, chi fa l’eucaristia? I direttori di quelle comunità sono diaconi o suore o direttamente laici. E Lobinger dice: si può ordinare un anziano sposato, è la sua tesi, ma soltanto che esercita il munus sanctificandi, cioè che celebri la messa, che amministri il sacramento della riconciliazione e dia l’unzione. L’ordinazione sacerdotale dà i tre munera: regendi, docendi e sanctificandi. Il vescovo gli dà soltanto la licenza del sanctificandi. Il libro è interessante. E forse può aiutare a pensare il problema. Credo che il tema deve essere aperto in questo senso: dove c’è il problema pastorale per la mancanza di sacerdoti. Non dico che si debba fare, perché non ho riflettuto, non ho pregato a sufficienza su questo. Ma i teologi devono studiare. Padre Lobinger è un fidei donum del Sudafrica. È anziano già. Parlavo con un officiale della segreteria di Stato, un vescovo che ha dovuto lavorare in un Paese comunista all’inizio della rivoluzione. Erano gli anni Cinquanta. I vescovi ordinarono di nascosto dei contadini, bravi religiosi. Poi passata la crisi, trenta anni dopo, la cosa si è risolta. E mi diceva l’emozione che aveva avuto quando in una concelebrazione vedeva questi contadini che mettevano il camice per concelebrare. Nella storia della Chiesa questo è stato dato. È una cosa da studiare, da pensare e pregare».
Ma ci sono anche i preti protestanti sposati che diventano cattolici, no?
«È vero. Benedetto XVI aveva fatto l’“Anglicanorum coetibus”: sacerdoti anglicani diventati cattolici e che vivono come se fossero orientali. Ricordo in un’udienza del mercoledì nella quale ne visti tanti, con donne e bambini». Molte ragazze in Centroamerica restano incinte precocemente, i detrattori della Chiesa dicono che è una sua responsabilità perché la Chiesa si oppone all’educazione sessuale. Qual è la sua opinione sull’educazione sessuale? «Nelle scuole bisogna dare educazione sessuale: il sesso è un dono di Dio, non è un mostro, è un dono di Dio per amare. Che poi alcuni lo usino per guadagnare soldi o sfruttare è un altro problema. Ma bisogna dare un’educazione sessuale oggettiva, così come senza colonizzazione ideologica. Se inizi dando un’educazione sessuale piena di colonizzazione ideologica, distruggi la persona. Ma il sesso come dono di Dio deve essere educato. Educare nel senso far emergere il meglio dalle persone e accompagnarle lungo la strada. Il problema è il sistema, che maestri si scelgono per questo compito e che libri di testo. Ho visto qualche libro un po’ sporco. Ci sono cose che fanno maturare e cose che fanno danni. Non so se a Panama si sta lavorando per questo, non entro nella politica. Ma bisogna che ci sia un’educazione sessuale. L’ideale è iniziare da casa: non sempre è possibile perché ci sono tante situazioni nelle famiglie. E quindi la scuola supplisce questo, perché altrimenti rimarrà un vuoto che poi verrà riempito da un’ideologia qualsiasi».
In questi giorni lei ha parlato con tanti ragazzi, sicuramente ha parlato anche con ragazzi che si allontanano dalla Chiesa. Quali sono i motivi che li allontanano? «Sono tanti. Alcuni sono personali, ma il più generale e il primo credo sia la mancanza di testimonianza dei cristiani, dei preti, dei vescovi, non dico dei Papi perché è troppo... ma anche pure! La mancanza di testimonianza. Se un pastore fa l’imprenditore o l’organizzatore di un piano pastorale, o se non è vicino alla gente, non dà testimonianza di pastore. Il pastore deve essere con la gente, pastore e gregge, diciamo con questo termine. Il pastore deve essere avanti del gregge, per marcare il cammino; in mezzo al gregge per sentire l’odore della gente e capire cosa sente la gente, di quale cosa ha bisogno, come sente; e dietro al gregge, per custodire la retroguardia. Ma se un pastore non vive con passione, la gente si sente abbandonata, un certo senso di disprezzo, si sente orfana. Ho sottolineato i pastori, ma anche i cristiani, i cattolici ipocriti, no? Quelli che vanno tutte le domeniche a messa e poi non pagano la tredicesima, ti pagano in nero, sfruttano la gente, poi vanno ai Caraibi a fare le vacanze con lo sfruttamento della gente. “Ma io sono cattolico, vado tutte le domeniche a messa!”. Se tu fai questo dai una controtestimonianza, e questo è a mio parere quello che più allontana la gente dalla Chiesa. Anche i laici… Ma io direi: non dire che sei cattolico, se non dai testimonianza. Di’ “io sono di educazione cattolica ma sono tiepido, sono mondano, chiedo scusa, non guardate a me come modello”, questo si deve dire. Ma io ho paura dei cattolici così eh? Che si credono perfetti! Ma la storia si ripete, succedeva lo stesso Gesù coi dottori della legge, no? “Ti ringrazio Signore perché non sono come questo povero peccatore...”. Questa è la mancanza di testimonianza. Ce ne sono altre, difficoltà personali, ma il motivo più generale è quello».
Durante il suo pranzo con un gruppo di giovani pellegrini, una giovane ragazza americana ci ha raccontato che le aveva parlato del dolore e dello sdegno di tanti cattolici, in particolare negli Stati Uniti, per la crisi degli abusi. Tanti cattolici americani pregano per la Chiesa, ma molti si sentono traditi e abbattuti dopo le recenti notizie di abusi e insabbiamento da parte di alcuni vescovi e hanno perso fiducia in loro. Quali sono le sue aspettative e speranze per l’incontro a febbraio, affinché la Chiesa possa ricominciare a ricostruire la fiducia fra i fedeli e i loro vescovi? «L’idea di questo incontro è nata nel G9 perché vedevamo che alcuni vescovi non capivano bene o non sapevano cosa fare o facevano una cosa buona e un’altra sbagliata e abbiamo sentito la responsabilità di dare una catechesi, tra virgolette, alle conferenze episcopali - per questo si chiamano i presidenti. Primo: che si prenda coscienza del dramma, cos’è un bambino abusato, una bambina abusata. Io ricevo con regolarità persone che sono state abusate. Ricordo uno che aveva passato 40 anni senza poter pregare. È terribile questo, la sofferenza è terribile. Secondo: che sappiano cosa si deve fare, la procedura, perché tante volte il vescovo non sa cosa fare. È una cosa che è cresciuta molto forte e non è arrivata a tutti gli angoli, diciamo così. Che si facciano programmi generali, ma che arrivino a tutte le conferenze episcopali: cosa deve fare il vescovo, cosa deve fare l’arcivescovo, cosa deve fare il presidente della conferenza episcopale. Ma che sia chiaro in maniera che siano dei protocolli - diciamolo in termini un po’ giuridici - e che siano chiari. Ma prima di cosa si deve fare quello che ho detto prima, prendere coscienza. Poi lì si farà una preghiera, ci sarà qualche testimonianza per aiutare a prendere coscienza e poi qualche liturgia penitenziale per chiedere perdono per tutta la Chiesa. Stanno lavorando bene nella preparazione di questo. Io mi permetto di dire che ho percepito un po’ una aspettativa gonfiata. Bisogna sgonfiare le aspettative a questi punti che io dico. Il problema degli abusi continuerà perché è un problema umano, dappertutto. L’altro giorno ho letto una statistica che dice: il 50 per cento è denunciato, il 20 per cento è ascoltato…Finiva così: il 5 per cento è condannato. Terribile. È un dramma umano e dobbiamo prendere coscienza. Anche noi risolvendo il problema nella Chiesa, prendendone coscienza, aiuteremo a risolverlo nella società, nelle famiglie dove la vergogna fa coprire tutto. Ma prima dobbiamo prenderne coscienza, avere i protocolli e andare avanti».
Durante questa Gmg ha detto che è assurdo e irresponsabile considerare i migranti I portatori di male sociale. In Italia le nuove politiche sui migranti hanno portato alla chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto, che lei conosce bene. Era una esperienza dove si vedevano semi di integrazione, i bambini andavano a scuola, e ora quelle persone rischiano uno sradicamento. Lei scelse di celebrare con loro di celebrare il Giovedì Santo del 2016. Le vorrei chiedere che cosa prova rispetto alla decisione della chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto.«Io ho sentito rumori di quello che passava in Italia ma ero immerso in questa Gmg, così di preciso non conosco bene la cosa ma mi immagino, mi immagino. È vero che il problema dei migranti è un problema molto complesso, un problema che richiede memoria, richiede di domandarsi se la mia patria è stata fatta da migranti. Noi argentini, tutti migranti; gli Stati Uniti, tutti migranti. Un vescovo, un cardinale, non ricordo quale, ha scritto un articolo bellissimo: “un problema di mancanza di memoria”, si chiamava . Le parole che io uso sono: ricevere, il cuore aperto per ricevere, accogliere, accompagnare, far crescere e integrare. E io dico anche: il governante deve usare la prudenza perché la prudenza è la virtù del governante. Questo l’ho detto qui nell’ultimo volo. È una equazione difficile. A me viene in mente l’esempio svedese che negli anni Settanta, con le dittature dell’America Latina, ha ricevuto tanti, tanti, ma tutti integrati. Vedo anche cosa fa Sant’Egidio per esempio: integra subito. Ma gli svedesi l’anno scorso hanno detto fermatevi un po’ perché non possiamo finire il percorso e questa è la prudenza del governante. È un problema di carità, di amore, di solidarietà e io ribadisco che le nazioni più generose nel ricevere sono state l’Italia e la Grecia, anche un po’ la Turchia. Quando io sono andato a Lampedusa, era l’inizio… Ma è vero che si deve pensare realisticamente. Poi hai un’altra cosa importante, è importante tenerne conto: un modo di risolvere il problema delle migrazioni è aiutare i Paesi da dove vengono. I migranti o vengono per fame o vengono per guerra. Investire dove c’è la fame - e l’Europa è capace di farlo - è un modo. Aiutare a crescere. Ma sempre c’è, parlando dell’Africa, quell’immaginario collettivo che noi abbiamo nell’inconscio: l’Africa va sfruttata. Questo è storico e questo fa male. I migranti del Medio Oriente hanno trovato altre via d’uscita. In Libano è una meraviglia di generosità: ha più di un milione di siriani. La Giordania lo stesso, sono aperti, fanno quello che possono. E anche la Turchia ha ricevuto qualcuno e noi in Italia abbiamo ricevuto qualcuno. È un problema complesso, di cui si deve parlare senza pregiudizi».
Qual è stata la sua missione nella Gmg centroamericana?«La mia missione in una Gmg è la missione di Pietro, confermare nella fede. E questo non si fa con comandi freddi e ordini ma lasciandosi toccare il cuore e rispondendo quello che ti viene. Io non concepisco, perché in me lo vivo così, faccio fatica a pensare che qualcuno possa compiere una missione solo con la testa. Per adempiere una missione bisogna sentirla, e quando la senti ti colpisce: la vita, i pensieri… Nell’aeroporto stavo salutando il presidente e mi hanno portato un bambino neretto simpatico. Mi hanno detto che questo ragazzo stava attraversando la frontiera della Colombia: la madre è morta e lui è rimasto da solo. Avrà circa 5 anni. Lui è dell’Africa però non sanno di che paese, perché non parla inglese né francese, ma solo la sua lingua tribale. Lo hanno adottato loro. È il dramma di un ragazzo abbandonato dalla vita perché la mamma è morta lì, il poliziotto lo ha consegnato alle autorità perché se ne prendessero cura. Questo è stato come uno schiaffo, per me. La missione mi coinvolge. Mi viene da dentro. Io dico ai giovani che nella vita devono usare tre linguaggi: testa, cuore e mani. Fare quello che senti, sentire quello che pensi, pensare quello che fai. Io non so fare un bilancio della missione, con tutto questo vado alla preghiera e rimango là davanti al Signore, a volte mi addormento, ma gli affido la missione. Così è come io concepisco la missione del Papa e come io la vivo. Ci sono stati casi in cui sono state presentate delle difficoltà di tipo dogmatico e a me non viene da rispondere solo con la ragione ma in un altro modo».

(Fonte: Corriere della Sera, 28 gennaio 2019)

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